Predica di Elisa Caliari
La perdita di un
figlio ti getta nel baratro. Il cuore si lacera, il dolore ti sovrasta, una
parte di te non c’è più e con essa vorresti seppellire tutto ciò che rimane.
Io sono una
mamma e ho conosciuto solo la vita, ma la paura della perdita si nasconde nella
mia pancia e nella mia mente e alla lettura del Vangelo di Luca si è
risvegliata. Ho letto di questa donna e ho detto “no”, di questo non voglio
parlare, non di ciò che più mi spaventa. Ma poi, come eco di una chiamata,
l’immagine di Gesù che allunga una mano e restituisce questo figlio a sua
madre, mi ha portato a riflettere per giorni e, con il cuore in subbuglio, mi
sono messa in ascolto della parola di Dio e del suo palpitare in me.
Ogni gesto, ogni
simbolo, ogni parola del racconto della vedova di Nain mi parla di materno,
quel codice dell’Io che ci porta alla vita, ci accompagna nel nostro cammino e che
cerchiamo di nuovo nel lasciare questo mondo.
È madre questa
donna sola, che non ha più marito, radici a cui ancorarsi, un passato che le
dia identità e che non ha più suo figlio, speranza di futuro, ragione
d’esistere.
È madre la città
di Nain, utero con una sola porta da cui esce la vita e che la vita accoglie.
È madre Gesù che
si commuove, che sente suo il dolore di lei, che interviene anche quando
nessuno chiede, che dice ”non piangere!” e poi accompagna alla vita questo
giovane con le sue mani.
Mi parla questa
madre senza voce, che non supplica, non spera, non vede. Ci sono solo lacrime a
inondare il suo dolore, acqua che sgorga dal suo corpo come nel giorno in cui
diede alla luce il suo bambino. Ma oggi non è tempo di luce, il buio l’avvolge
in questo corteo di morte che incontra il fiume di vita di Gesù e di chi è in Lui. Sprofondata nel
baratro questa donna è sola tra la gente che comunque piange con lei. Forse
stare accanto a qualcuno che soffre non basta, di certo non basta a lei e Gesù,
che sente nelle viscere il suo dolore, lo sa. Solo un segno forte la può alzare
dall’abisso in cui è caduta e allora ecco le parole che non ti aspetti: “Non
piangere!”, imperativo. Chi nella vita
ci ha detto, in modo perentorio, “Non piangere!”? Non l’amico che ascolta, che
condivide il nostro dolore e che magari si commuove con noi. Certamente non chi
ci osserva, magari impietosito, e non trova il modo di aiutarci. Io credo che
solo nostra madre ci abbia detto, di fronte a tanto dolore, “non piangere!”. E
ci ha fatto male perché in quel momento era nostro diritto versare ogni
lacrima, era nostro diritto scivolare nell’oblio. Ma nostra madre non può
lasciarci cadere nel profondo perché la ferita che ci lacera brucia il suo
animo, il nostro dolore è il suo dolore e se ne fa carico. Con questo,
durissimo imperativo, ogni mamma scrolla il proprio figlio e lo afferra per
portarlo in superficie. È uno strappo che induce a rialzarci e ci salva. “Non
piangere, ci sono io. Prendo su di me il tuo dolore e lo trasformo”. E come
ogni madre sa fare, attraverso il dolore, genera vita. Le acque si aprono, il
figlio esce dal grembo e respira.
Gesù, madre,
porta alla luce il figlio.
La morte e la
vita hanno un confine incerto: venire al mondo e lasciare questa Terra sono due
passaggi che compiamo attraverso e verso la madre. Quante persone invocano
“mamma” nel momento della fine, come se mamma fosse un altro nome di Dio?
Io stessa nel
partorire mio figlio ho compreso mia madre, le sue paure, la sua fatica, il suo
non essere più solo sua, ma parte di un tutto che si proietta in un altro da sé.
Non mi sono dovuta confrontare con la morte ma ho provato la paura della
perdita: Caterina, la mia bambina allora di pochi mesi, cadde un mattino dal
mio letto, molto alto. Io ero lontana da lei e nel sentire quel tonfo, seguito
dal silenzio, percepii una lacerazione del cuore che, ricordo, mi fece urlare
“mamma”e poi “Dio, no!”.
Ma Dio non è
forse madre e padre?
Gesù è madre quando,
contro ogni convenzione perché vietato dalla legge, tocca con le sue mani
questo figlio e lo introduce al mondo; è padre quando lo sprona dicendo “
Ragazzo, dico a te, alzati!” perché il ruolo paterno è quello di accompagnare e
poi portare all’autonomia, è lasciar andare; ed è figlio quando, nella
fragilità umana di questo giovane, vede se stesso.
Gesù conosce il
proprio destino e di fronte alla sua morte il pensiero andrà a Maria e a lei
darà un figlio, Giovanni, perché non sia sola, perché le sia garantito un futuro,
perché non cada nel baratro.
Allora ecco il
miracolo. Restituire alla vita ciò che è morto. Che significato ha questo
miracolo?
Non è certo
compiuto per il riconoscimento: “Un grande profeta è tra noi […] Dio ha
visitato il suo popolo”, acclama la folla interpretando così questo rendere la
vita.
È forse dare
dignità a questa vedova, reietta ormai dalla società del tempo, in quanto donna
senza uomo e senza figlio, perciò senza scopo? Data la grande cura di Cristo
per ogni emarginato è possibile, credo probabile, nel contesto della storia.
Ma oggi a me, a
ognuno di noi, cosa dice questo miracolo? Che si può portare vita dove c’è morte,
che il ramo secco può rifiorire, che dall’abisso si risale grazie a una mano
tesa e parole sferzanti, come di rimprovero e laceranti come strappi. Che ci
vuole forza quando l’acqua ti avviluppa e ti porta giù e che è responsabilità
di ogni uomo e ogni donna tornare alla vita.
“Ti esalterò,
Signore, perché mi hai risollevato […] hai fatto risalire la mia vita dagli
inferi, mi hai fatto rivivere perché non scendessi nella fossa.” Dice il Salmo.
Dio, che è in
noi, è fiamma che non si spegne, è forza che trascende e dobbiamo ritornare,
ritrovare, rinascere, ogni giorno.
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