Commento al Vangelo della vedova di Nain Luca 7, 11-17



Predica di Elisa Caliari

La perdita di un figlio ti getta nel baratro. Il cuore si lacera, il dolore ti sovrasta, una parte di te non c’è più e con essa vorresti seppellire tutto ciò che rimane.
Io sono una mamma e ho conosciuto solo la vita, ma la paura della perdita si nasconde nella mia pancia e nella mia mente e alla lettura del Vangelo di Luca si è risvegliata. Ho letto di questa donna e ho detto “no”, di questo non voglio parlare, non di ciò che più mi spaventa. Ma poi, come eco di una chiamata, l’immagine di Gesù che allunga una mano e restituisce questo figlio a sua madre, mi ha portato a riflettere per giorni e, con il cuore in subbuglio, mi sono messa in ascolto della parola di Dio e del suo palpitare in me.
Ogni gesto, ogni simbolo, ogni parola del racconto della vedova di Nain mi parla di materno, quel codice dell’Io che ci porta alla vita, ci accompagna nel nostro cammino e che cerchiamo di nuovo nel lasciare questo mondo.
È madre questa donna sola, che non ha più marito, radici a cui ancorarsi, un passato che le dia identità e che non ha più suo figlio, speranza di futuro, ragione d’esistere.
È madre la città di Nain, utero con una sola porta da cui esce la vita e che la vita accoglie.
È madre Gesù che si commuove, che sente suo il dolore di lei, che interviene anche quando nessuno chiede, che dice ”non piangere!” e poi accompagna alla vita questo giovane con le sue mani.
Mi parla questa madre senza voce, che non supplica, non spera, non vede. Ci sono solo lacrime a inondare il suo dolore, acqua che sgorga dal suo corpo come nel giorno in cui diede alla luce il suo bambino. Ma oggi non è tempo di luce, il buio l’avvolge in questo corteo di morte che incontra il fiume di vita di  Gesù e di chi è in Lui. Sprofondata nel baratro questa donna è sola tra la gente che comunque piange con lei. Forse stare accanto a qualcuno che soffre non basta, di certo non basta a lei e Gesù, che sente nelle viscere il suo dolore, lo sa. Solo un segno forte la può alzare dall’abisso in cui è caduta e allora ecco le parole che non ti aspetti: “Non piangere!”, imperativo.  Chi nella vita ci ha detto, in modo perentorio, “Non piangere!”? Non l’amico che ascolta, che condivide il nostro dolore e che magari si commuove con noi. Certamente non chi ci osserva, magari impietosito, e non trova il modo di aiutarci. Io credo che solo nostra madre ci abbia detto, di fronte a tanto dolore, “non piangere!”. E ci ha fatto male perché in quel momento era nostro diritto versare ogni lacrima, era nostro diritto scivolare nell’oblio. Ma nostra madre non può lasciarci cadere nel profondo perché la ferita che ci lacera brucia il suo animo, il nostro dolore è il suo dolore e se ne fa carico. Con questo, durissimo imperativo, ogni mamma scrolla il proprio figlio e lo afferra per portarlo in superficie. È uno strappo che induce a rialzarci e ci salva. “Non piangere, ci sono io. Prendo su di me il tuo dolore e lo trasformo”. E come ogni madre sa fare, attraverso il dolore, genera vita. Le acque si aprono, il figlio esce dal grembo e respira.
Gesù, madre, porta alla luce il figlio.
La morte e la vita hanno un confine incerto: venire al mondo e lasciare questa Terra sono due passaggi che compiamo attraverso e verso la madre. Quante persone invocano “mamma” nel momento della fine, come se mamma fosse un altro nome di Dio?
Io stessa nel partorire mio figlio ho compreso mia madre, le sue paure, la sua fatica, il suo non essere più solo sua, ma parte di un tutto che si proietta in un altro da sé. Non mi sono dovuta confrontare con la morte ma ho provato la paura della perdita: Caterina, la mia bambina allora di pochi mesi, cadde un mattino dal mio letto, molto alto. Io ero lontana da lei e nel sentire quel tonfo, seguito dal silenzio, percepii una lacerazione del cuore che, ricordo, mi fece urlare “mamma”e poi “Dio, no!”.
Ma Dio non è forse madre e padre?
Gesù è madre quando, contro ogni convenzione perché vietato dalla legge, tocca con le sue mani questo figlio e lo introduce al mondo; è padre quando lo sprona dicendo “ Ragazzo, dico a te, alzati!” perché il ruolo paterno è quello di accompagnare e poi portare all’autonomia, è lasciar andare; ed è figlio quando, nella fragilità umana di questo giovane, vede se stesso.
Gesù conosce il proprio destino e di fronte alla sua morte il pensiero andrà a Maria e a lei darà un figlio, Giovanni, perché non sia sola, perché le sia garantito un futuro, perché non cada nel baratro.
Allora ecco il miracolo. Restituire alla vita ciò che è morto. Che significato ha questo miracolo?
Non è certo compiuto per il riconoscimento: “Un grande profeta è tra noi […] Dio ha visitato il suo popolo”, acclama la folla interpretando così questo rendere la vita.
È forse dare dignità a questa vedova, reietta ormai dalla società del tempo, in quanto donna senza uomo e senza figlio, perciò senza scopo? Data la grande cura di Cristo per ogni emarginato è possibile, credo probabile, nel contesto della storia.
Ma oggi a me, a ognuno di noi, cosa dice questo miracolo? Che si può portare vita dove c’è morte, che il ramo secco può rifiorire, che dall’abisso si risale grazie a una mano tesa e parole sferzanti, come di rimprovero e laceranti come strappi. Che ci vuole forza quando l’acqua ti avviluppa e ti porta giù e che è responsabilità di ogni uomo e ogni donna tornare alla vita.
“Ti esalterò, Signore, perché mi hai risollevato […] hai fatto risalire la mia vita dagli inferi, mi hai fatto rivivere perché non scendessi nella fossa.” Dice il Salmo.
Dio, che è in noi, è fiamma che non si spegne, è forza che trascende e dobbiamo ritornare, ritrovare, rinascere, ogni giorno.

Nessun commento:

Posta un commento