Commento alla Liturgia - 4 Settembre
2016
“Quale uomo può conoscere il
volere di Dio?
“Chi può immaginare che cosa
vuole il Signore?”
La parola di Dio parte da questa riflessione contenuta nella
Sapienza (da “sàpere”, “insaporire”, “dare sapore”), da questo testo molto
bello, un po’ pessimistico, scritto non per il popolo ebraico, ma per quel crogiuolo
di culture che abitavano la zona di Alessandria qualche secolo prima di Gesù. Là
dove questi ebrei, in un ambiente straniero ed ostile, si interrogano, si
pongono le grandi domande sul senso della vita.
Chi riesce a rintracciare
le cose del Cielo?
Chi riesce a dare senso
alle cose che facciamo?
Chi riesce a capire il
cuore dell’uomo?
E’ bello potersi ancora oggi interrogare, chiedere, lasciar
vibrare dentro di noi questa Parola.
La Bibbia, scritta duemila anni fa, è un libro ancor oggi più
che attuale, che ha a che fare con la mia vita concreta, che mi interroga, che
mi scuote, che mi entra nel cuore.
Il vangelo di oggi sembra quasi voler essere una risposta a
questa grande domanda che ci poniamo sul senso della vita.
GESU’ infatti ha una idea ben chiara e dice ai suoi discepoli
e a noi:
E’ il volto di Dio, che
Egli è venuto a rivelare, a dare senso alla nostra vita.
Lui è più della più grande gioia che possiamo vivere, della
gioia dell’innamoramento, della
paternità, della maternità, del far parte di una famiglia che ci vuole
bene. Lui è più di tutto questo!!
E ci dice “se uno viene a me e non mi ama più di
quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e
perfino la propria vita, non può essere mio discepolo”.
Questa è la prima
condizione, dura, posta da GESU’
per essere Suo discepolo. Attenzione, discepolo, non un semplice seguace! Parole certo piuttosto aspre ad una prima
lettura. Soffermandoci però sul: se uno non “mi ama di più”, ecco che
con quel “di più” GESU’ in realtà intende non sottrarre amori, bensì
aggiungere appunto un “di più”. Non si tratta quindi di
rinunciare ai propri affetti, bensì di ampliarli, attraverso l’amore verso Gesù.
E’ questa assolutezza che ci viene chiesta: amare
Gesù più di chiunque, più delle persone a noi più care, più della nostra stessa
vita.
Ed amando Gesù più di chiunque, potremo amare di più le
persone a noi più care, amare di più la nostra vita.
La proposta di Gesù tocca le nostre corde più intime, è radicale,
totalizzante.
Gesù vuole dirci che
Lui può colmare il nostro cuore più della più grande gioia che possiamo vivere.
Un riferimento personale: mi sono avvicinato consapevolmente a
Gesù in età oramai adulta, intorno ai trent’anni, sperimentando di persona sensazioni
di grazia, beatitudine e pace profonda mai provate prima, imparando inoltre a
saper accettare e perdonare chi mi aveva fatto o faceva del male, ma prima
ancora dandomi la possibilità di accettare e perdonare me stesso, i miei
limiti, i miei difetti, i tanti errori commessi.
Ancora oggi, in questo continuo - discontinuo cammino di
conversione, mi accorgo di quando sono più o meno vicino a Gesù: quando mi
allontano mi ritrovo ad essere più nervoso e litigioso, meno paziente e
tollerante, in primis con me stesso, poi con la mia famiglia e talvolta anche
con gli altri.
Al contrario, quanto più vicino sono a Gesù più mi sento
centrato, in armonia con me stesso, gli altri e la vita che mi circonda.
Tornando al vangelo, troviamo scritto “una folla numerosa andava con
Gesù”, ma Gesù mette subito le cose in chiaro dicendo “se uno viene a me”….. Gesù si rivolge
alla folla sottolineando quindi che il rapporto, la relazione non è con la massa, ma con il singolo. A Gesù non
interessano i raduni oceanici e neppure che lo si segua per fanatismo o per
l’entusiasmo del momento. E’ un Dio che ci prende sul serio, vuole che la
nostra scelta di lui sia consapevole.
Seconda condizione: La Croce. “Colui che non porta la propria croce e non
viene dietro di me, non può essere mio discepolo.”
E’ la Croce, in cui si riassume la vicenda di Gesù, che dà
senso profondo alla vita di noi cristiani, emblema di amore senza misura,
disarmato, coraggioso.
Senza la Croce quale significato dare alla nostra vita? Senza
la Croce quale significato dare alla sofferenza, alla malattia, alla morte, alla
disoccupazione, alla crisi economica, alla fame nel mondo, al terrorismo, alle
guerre, alle catastrofi naturali?
Portare la Croce
significa saper accettare ciò che la vita Ti presenta.
Portare la Croce
significa saper accettare e perdonare chi Ti fa del male.
Portare la croce
significa amare, amare fino in fondo, nonostante tutto!
GESU’ ci pone poi una terza condizione: “Così
chiunque di Voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio
discepolo”
Rinunciare a tutti i propri averi…… Rinunciare alle cose, non metterle
in cima ai propri pensieri, rinunciare alla logica dell’avere di più , rinunciare
a questo sistema disposto a fare del denaro la misura del bene e del male,
uscire dalla logica “io ho, quindi io sono, io valgo”, imparare NON ad avere di più, MA ad amare bene e di più.
Quindi, per poter essere suoi discepoli:
1)
Amare
Gesù sopra ogni altra relazione, anche la più sacra e cara, e amarlo più della
nostra stessa vita
2)
Portare
la propria Croce e rimanere sempre dietro Gesù, rinunciando alla tentazione di
metterci davanti a Lui
3)
Rinunciare
a tutti i propri averi, non come sacrificio, ma come atto di libertà
Luca infine riporta nel vangelo due parabole:
la prima compara la sequela alla costruzione di una torre. E’ bene fermarsi a
valutare attentamente ogni costo onde evitare fallimenti che espongono alla
derisione.
La seconda la compara ad una guerra ad armi impari tra due re.
E’ bene che il re che ha un minor numero di soldati da schierare sappia valutare
bene l’entrata o meno in guerra, onde evitare di doversi arrendere.
GESU’ NON ama le cose
lasciate a metà, perché generano tristezza.
GESU’ ci invita a
pensarci bene prima di deciderci a seguirlo. E sembra dirci: questa è la
strada, io sono la via, Te la senti?
Ecco quindi che essere Cristiani richiede una scelta
consapevole, una decisione libera, matura, ponderata, intelligente.
A questo proposito torna utile concludere ricordando la
seconda lettura di oggi che cita quel breve foglietto che Paolo Apostolo scrive al suo amico Filémone, finito
non si sa esattamente come nella Bibbia.
Uno schiavo di Filemone, Onesimo, è scappato ed è andato da
Paolo a chiedere rifugio. Paolo intuisce subito che la situazione è piuttosto
complessa e delicata. Così rimanda
Onesimo dal suo padrone, Filemone, con questo biglietto, nel quale gli dice: Filemone,
è certo che Onesimo è scappato, che lui è un tuo schiavo, che è tua proprietà,
ma nel contempo ricordati che tu sei credente, così come anche Onesimo è
credente, siete entrambi credenti, quindi fratelli. Così Paolo chiede a
Filemone di trattare Onesimo come fosse lui, il suo amico Paolo, tanto stimato
e voluto bene, giungendogli a chiedere
di far finta che Onesimo fosse Paolo stesso.
Certo, Paolo non
intende mettere in discussione il concetto di schiavitù, retaggio di tutte le
culture del tempo: ebraica, romana, greca; ma
introduce un concetto nuovo, cioè il fatto che tra due cristiani non
ci può essere uno schiavo ed un padrone, ma il padrone considera lo schiavo un
fratello e lo schiavo serve il suo padrone come fosse un fratello.
Proviamo solo, se ci riusciamo, ad immaginare come potrebbero
essere diversi spesso i luoghi di lavoro, tra i dipendenti e i propri datori di
lavoro, e tra i datori di lavoro ed i propri dipendenti, se solo venisse applicata
questa semplice cosa che Paolo aveva intuita duemila anni fà.
Paolo, che ha sperimentato che Gesù è più di qualunque altra
cosa più grande che possiamo vivere, ribalta la prospettiva… se questo è vero, allora
il mondo cambia: cambiano i potentati, cambiano le politiche, cambia
l’economia, cambia addirittura una cosa così consolidata e certa come poteva
essere la schiavitù.
La liturgia ci dice
quindi che questa Parola, la pretesa di Gesù di essere più di ogni altra cosa,
se presa sul serio, cambia la vita di Paolo, di Onesimo, di Filemone e di
tutti noi.
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